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Mobbing: quando la vittima è donna

Oggi sempre più spesso sentiamo parlare di mobbing e questo termine è entrato a far parte del nostro vocabolario comune a causa dei frequenti abusi e vessazioni che le persone subiscono nel contesto lavorativo.

Ma cosa significa “mobbing”?

Il termine mobbing, di origine inglese, significa “molestare, aggredire, assalire in massa” e può essere definito come l’insieme dei comportamenti aggressivi, vessatori di tipo fisico, verbale e psicologico esercitati da un gruppo di persone verso altri soggetti con lo scopo di escluderli. Con il termine mobbing ci si riferisce quindi a ogni tipo di emarginazione da un gruppo, ma l’ambito in cui viene maggiormente riconosciuto è quello lavorativo.

Il mobbing viene quindi considerato un vero e proprio atto di violenza e di abuso sistematico, che viene reiterato nel tempo, esercitato dal datore di lavoro o dai colleghi (i cosiddetti “mobber”) con il chiaro intento di estromettere ed isolare un/una collega dal gruppo lavorativo.

Quali sono gli effetti del mobbing?

Gli effetti negativi del mobbing investono la sfera psicofisica e professionale della vittima. A livello psicofisico, compaiono disturbi del sonno, alimentari, del tono dell’umore (ansia con attacchi di panico e depressione) e psicosomatici (emicranie, dermatiti, gastriti) a cui si associano manifestazioni di rabbia eccessiva che spesso coinvolgono l’ambito familiare e sociale. Nel contesto lavorativo invece si manifestano cali di attenzione e della produttività associati ad un aumento dell’assenteismo.

Cosa succede quando la vittima è donna?

In Italia una donna su dieci, tra i 35 e i 45 anni, subisce discriminazioni o molestie sul luogo di lavoro. Questa è solitamente la fascia di età in cui per le donne il carico familiare è più intenso e quindi chiedono di usufruire della flessibilità o della riduzione dell’orario lavorativo. Situazioni come il matrimonio, il rientro dalla maternità o il rifiuto di avances sono la causa principale di mobbing e marginalizzazione nel contesto professionale.

Nell’81% dei casi, gli abusi subiti in ambito lavorativo non vengono denunciati. Alla base la paura di non essere adeguatamente tutelate e di subire conseguenze irreversibili come il licenziamento o le dimissioni volontarie.

Quando il mobber è uomo e la vittima è donna possiamo parlare di mobbing di genere. Questo è caratterizzato non solo dalle molestie fisiche e sessuali che le donne possono subire sul luogo di lavoro ma anche da tutti quei commenti negativi e dispregiativi sulle competenze lavorative, volti a denigrare la posizione lavorativa della donna.  Spesso, inoltre, vengono attribuite caratteristiche negative come per esempio: essere poco intelligenti, facilmente soggette “all’influenza ormonale” (vedi gli stereotipi legati al ciclo mestruale) o eccessivamente emotive. Tutto ciò si concretizza in condotte di isolamento sistematico della lavoratrice, l’attribuzione di incarichi squalificanti e mortificanti, l’esclusione da comunicazioni e riunioni interne, l’assegnazione di postazioni di lavoro isolate, fino ad arrivare ad attacchi alla reputazione e alla ridicolizzazione pubblica.

Spesso questi agiti posso proseguire anche al di fuori dell’orario di lavoro e nel contesto dello smart-working attraverso i cosiddetti abusi virtuali.

Come possiamo fronteggiare queste situazioni?

Ad oggi, la legislazione cerca di debellare e arginare tale fenomeno attraverso l’istituzione della figura del Consigliere di Parità (D.lgs. 198/2006). È nominato con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro per le Pari Opportunità, su designazione delle regioni e delle province. Le sue funzioni riguardano principalmente la promozione e il controllo dell’attuazione dei principi di pari opportunità e di non- discriminazione per donne e uomini nel contesto lavorativo e, in quanto pubblici ufficiali, sono obbligati a segnalare all’autorità giudiziaria qualsiasi reato in materia.

Da un punto di vista psicologico invece è necessario un supporto professionale atto principalmente a desensibilizzare ed elaborare le esperienze traumatiche ed emotive vissute dalla vittima nel contesto lavorativo, nonché a promuovere le sue risorse personali e professionali e a rafforzarne l’autostima.

Elisa Reali, psicologa psicoterapeuta del team Mama Chat

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